Un istante che ne racchiude mille: i teatri (e la fotografia) di Hiroshi Sugimoto
Immaginate di entrare in un teatro vuoto, ma una luce abbagliante arriva dal palcoscenico…in quella luce l’occhio non distingue nulla, ma la mente sa che in essa stanno scorrendo tutti i fotogrammi di un film che lì viene proiettato. Potreste trovarvi all’interno di una fotografia di Hiroshi Sugimoto (1948).
Theaters (dal 1978)
Di teatri americani, riconvertiti in sale cinematografiche, Sugimoto (https://www.sugimotohiroshi.com/) ne ha fotografati tanti, sì perché lui, che è uno dei più importanti autori della fotografia giapponese contemporanea (formatosi e residente però negli Stati Uniti), lavora per serie, anche nell’arco di molti anni, con una tecnica minuziosa, quasi sempre in bianco e nero e tenendosi lontano dal digitale.
In questo caso, grazie a lunghissimi tempi di esposizione (tiene aperto l’otturatore per tutta la durata del film) e ad un processo di stampa da lui personalmente curato, racchiude in un attimo il fluire del tempo di un intero film, che viene apparentemente azzerato. Il risultato è un’immagine silenziosa, minimalista e raffinata. Non è un caso: Sugimoto, che è anche architetto, costruisce ogni scatto con grande precisione compositiva, e ci invita a riflettere su concetti tanto cari alla cultura giapponese: il vuoto (che tutto contiene e può contenere), l’ombra (da cui nasce e prende valore la luce), il tempo. C’è quindi una relazione profonda tra quello schermo apparentemente vuoto, ma in realtà magico perché contiene milioni di immagini, e l’ombra che lo avvolge e valorizza.
@ Hiroshi Sugimoto, Carpenter Center, Richmond,1993
@Hiroshi Sugimoto, Tri-City Drive-In, San Bernardino, 1993
Connessioni
La grande arte ha la capacità di creare connessioni e di fornire suggestioni, anche lontane nel tempo e nello spazio, e di far sì che ciò che fruiamo in un certo momento si colleghi ad altro, di cui abbiamo fatto esperienza. Nella mia mente le fotografie dei teatri di Sugimoto hanno creato tanti rimandi, ma di due in particolare vi vorrei parlare.
Il primo riguarda l’artista iraniana, che vive anch’essa negli Stati Uniti, Avish Khebrehzadeh (https://www.avishkz.com/) , che in Theater III + Edgar (2010) (https://www.youtube.com/watch?v=o3UhdT0xw7M), dipinge ad olio e gesso su lavagna un grande teatro vuoto e buio, con uno schermo bianco: ciò che potrebbe essere il parallelo dipinto di una fotografia di Sugimoto è invece, da una parte, l’inverso. Sullo schermo dipinto vengono infatti poi proiettati e musicati gli episodi di una fiaba orientale, in cui si fonde passato e presente…nuovamente parliamo di tempo. La proiezione rompe un silenzio che, anche in questo caso, è solo apparente ma su cui l’artista ci invita costantemente a riflettere. Il teatro prende vita per poi tornare buio al termine della proiezione, come se calasse un sipario.
@Avish Khebrehzadeh, Theater III +Edgar, 2010
E poi c’è il piccolo e bellissimo Libro d’ombra di Jun’ichiro Tanizaki (autore che ho scoperto spesso citato dal fotografo stesso), che ci racconta del valore fondamentale della luce e del bianco, reso tale solo grazie all’oscurità che lo sostiene e che rende la bellezza inscindibile dall’ombra. Il suo amore è per la luce naturale, non violenta, diversa da quella artificiale così staccata dalla tradizione. E l’autore fa questo riflettendo sull’architettura degli anni Trenta, lo stesso periodo a cui appartengo i primi teatri di Sugimoto, così come la stessa è l’esplorazione del rapporto luce-ombra, fondamentale per la cultura giapponese, a differenza di quella occidentale che tende a privilegiare la luce piena, brillante e uniforme.
Altri progetti
Sugimoto ha prodotto diversi lavori, ognuno dei quali è spesso una riflessione estetica e concettuale su temi filosofici. Tra di essi ne vorrei ricordare due che giocano sul concetto di illusione e con il fatto che la fotografia può far sembrare vero ciò che vero non è, vivo ciò che non lo è. La prima serie, dal 1976, Dioramas, raccoglie fotografie di animali imbalsamati all’interno di Musei di Storia Naturale, su sfondi dipinti, presentandoceli come fossero vivi. La seconda, realizzata a partire dal 1999, costruita al museo delle cere di Londra, Portraits, dal 1994, in cui i volti, a volte riproduzioni di riproduzioni (nati da copie di antichi dipinti), sono resi come fossero veri, originali, rendendo flebile il confine tra realtà e finzione e creando un senso di spaesamento nell’alludere alla possibilità di fermare il tempo.
@Hiroshi Sugimoto, Hyena – Jackal – Vulture, 1976
@Hiroshi Sugimoto, Diana, Princess of Wales, 1999
@Hiroshi Sugimoto, Anne of Cleves, 1999
Bellissimo è anche il poetico Seascapes, del 1980, in cui fotografa il mare in bianco e nero e con lunghissime esposizioni, come in Theatres, rendendolo astratto, privo di ogni connotazione specifica che distragga dalla sua purezza, spirituale e ancestrale, con l’orizzonte esattamente a metà. Per concludere citerei la serie che documenta in modo lirico la vita di una candela nella brezza notturna, In Praise of Shadows, dall’accensione allo spegnimento.
@Hiroshi Sugimoto, Seascapes:
Caribbean Sea, Jamaica, 1980
Ligurian Sea, Saviore, 1993
Baltic Sea, Rügen, 1996
@Hiroshi Sugimoto:
In Praise of Shadow 980727, 1998
In Praise of Shadow 980726, 1998
In Praise of Shadow 980816, 1998
Conclusione
Immagini essenziali, quasi sempre in bianco e nero, poetiche, silenziose, spirituali e meditative, legate alla tradizione giapponese e alla tradizione del mezzo fotografico, caratterizzano ogni serie che il fotografo realizza dagli anni Settanta ad oggi. L’invito è ad una contemplazione lenta, attraverso immagini senza tempo, sospese tra realtà e astrazione (https://www.exibart.com/personaggi/lintervista-hiroshi-sugimoto/).
E così la serie Theatres, rinominata Opera House, partita con architetture americane prima degli anni Venti e Trenta, poi degli anni Cinquanta e poi dei Drive In, raccoglie oggi scatti realizzati in tutto il mondo, anche in Italia, come quelli portati in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino nel 2017 o all’Accademia Carrara di Bergamo nel 2024, dove, per la prima volta, espone fotografie in cui gira la macchina fotografica per raccontare gli spazi destinati agli spettatori, come platee, palchi e gallerie…ancora una volta vuoti, ma è il vuoto che dà significato all’immagine, perché dove non c’è niente ci può essere tutto, soprattutto la bellezza!
@Hiroshi Sugimoto, Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova, 2015 “I Vitelloni”
@Hiroshi Sugimoto, Teatro Carignano, Torino, 2016
@Hiroshi Sugimoto, Franklin Park Theater, Boston, 2015 “Rashomon”, serie Abandoned Theater
di Elena Barbaglio | 18/5/2025
Le fotografie sono state prese dal web e utilizzate esclusivamente a fini informativi.
